L’Italia è diventata uno dei principali hub globali per la produzione e vendita di spyware, insieme a India e Israele, secondo un recente rapporto dell’Atlantic Council. Il mercato italiano del software di sorveglianza è, infatti, il più longevo tra quelli studiati e conta almeno sei importanti aziende produttrici, oltre a numerose realtà più piccole.
La diffusione del mercato italiano dello spyware è favorita da diversi fattori: innanzitutto, le forze dell’ordine possono noleggiare questi strumenti a prezzi molto contenuti, circa 150 euro al giorno secondo il Ministero della Giustizia. Inoltre, non esiste un’autorità centrale che regoli l’utilizzo di spyware nelle indagini, rendendo facile per i pubblici ministeri ottenerlo con l’autorizzazione di giudici locali.
La prima azienda italiana di spyware, RCS Labs, è nata nel 1992, ben prima che si sviluppassero mercati simili in altri paesi europei. Negli anni il settore è cresciuto, arrivando a contare diverse aziende di rilievo come Hacking Team (ora Memento Labs).
Secondo Fabio Pietrosanti, presidente dell’Hermes Center for Transparency and Digital Human Rights:
“Lo spyware viene usato più in Italia che nel resto d’Europa perché è più accessibile. Come per qualsiasi tecnologia o strumento investigativo, se è più accessibile verrà usato di più. È una conseguenza naturale.”
Nel 2017 è stato fatto un tentativo di regolamentare meglio l’uso dello spyware da parte delle autorità italiane, ma il disegno di legge non è passato. Tuttavia, alcuni dei principi introdotti sono stati inclusi in una nuova legge di riforma che entrerà in vigore a febbraio 2024.
Stefano Quintarelli, ex parlamentare italiano che ha guidato gli sforzi di riforma, ha spiegato: “Durante il mio lavoro preparatorio per la proposta di legge, mi è stato detto che spiano il tuo telefono e trovano cose interessanti, e poi non possono usarle direttamente quindi ti fermano, prendono il tuo telefono, ti chiedono di sbloccarlo e poi dicono ‘Oh, vedo che ci sono prove incriminanti nel telefono’.”
La facilità di utilizzo e la frequenza con cui viene impiegato lo spyware in Italia sono direttamente responsabili della proliferazione di aziende nel settore. Secondo Pietrosanti, il numero totale di aziende operanti nel paese è molto più alto delle sei segnalate nel rapporto dell’Atlantic Council.
Le aziende che forniscono spyware alle forze dell’ordine italiane vendono anche strumenti investigativi più comuni, creando relazioni commerciali che rendono l’acquisizione di spyware più semplice e naturale.
L’uso diffuso di spyware da parte delle forze dell’ordine locali in Italia si inserisce in un contesto europeo problematico: diversi paesi come Grecia, Spagna, Ungheria e Polonia sono stati scoperti a utilizzare strumenti di sorveglianza contro cittadini non coinvolti in terrorismo o criminalità.
Con la moltiplicazione delle aziende italiane di spyware, supportate da polizia e pubblici ministeri, sono aumentate anche le esportazioni di questa tecnologia. Requisiti di licenza laschi e scarsa applicazione dei controlli sulle esportazioni hanno permesso vendite all’estero e profitti per le aziende italiane.
La nuova legge che entrerà in vigore a febbraio 2025 dovrebbe costringere le forze dell’ordine a dipendere meno regolarmente dallo spywar, anche se, rimangono molte domande sull’efficacia delle riforme una volta implementate.
Insomma, l’Italia si trova ad affrontare una sfida complessa nel bilanciare le esigenze investigative con la tutela della privacy dei cittadini. La nuova legge rappresenta un passo avanti, ma sarà necessario monitorarne attentamente l’implementazione per valutarne l’efficacia nel regolamentare un settore in rapida evoluzione e dall’impatto potenzialmente invasivo.